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Sai cosa è la metacognizione?

La metacognizione viene definita come la conoscenza che qualcuno possiede sul proprio funzionamento cognitivo e le strategie che mette in atto per controllare questo sviluppo (Brown, Armbruster e Baker, 1986). Secondo la ricerca metacognitiva la maggior parte degli apprendimenti si attua per mezzo della trasmissione culturale. Genitori, insegnanti, educatori sono quindi mediatori attivi tra il bambino e la nozione da apprendere. Sviluppare capacità metacognitive vuol dire, per il bambino, acquisire flessibilità di fronte alle novità, renderlo capace di pianificare valorizzando le sue risorse, agevolando il controllo e il regolamento emotivo, dirigendosi velocemente verso un comportamento adeguato e funzionale all'apprendimento.

Bibliografia:

  • O Albanese, PA Doudin, D Martin  (2003) Metacognizione ed educazione, Francoangeli, Milano.
  • Scott G. Paris, David A. Saarnio & David R. Cross (1986) A metacognitive curriculum to promote children's reading and learning, Australian Journal of Psychology

Il posto giusto....

Dopo la lettura di questo articolo inizierete a pensare, ecco! ogni atteggiamento ormai viene analizzato, patologizzato, crea sintomi, disagi  oppure, concluderete dicendo "i vecchi metodi non hanno creato traumi a nessuno!". Ascolto ognuna di queste affermazioni all'interno dei miei setting lavorativi, ma molto più spesso in discussioni, tra amici. Piccoli stereotipi rispetto all'educazione. Stereotipi e convinzioni che spingono i genitori ad evitare di agire da figura genitoriale oppure ad eccedere abusando del proprio ruolo. E' giusto, invece, vivere l'educazione dei propri figli in maniera equilibrata, senza tornare ai vecchi e duri modelli, ma senza perdere di vista l'importantissimo ruolo che hanno i genitori nella regolazione emotiva del bambino. Insomma, ognuno al proprio posto! Così come ogni buona squadra vincente! So perfettamente che ogni genitore agisce sempre per il bene del proprio figlio. Ed è normale che un genitore si ritrova, ad un certo punto della sua esperienza genitoriale, di fronte a difficoltà di gestione del bambino. So anche, che inizia a sperimentare una serie di strategie che spesso non sortiscono i risultati desiderati ma, anzi, fomentano comportamenti poco funzionali al buon sviluppo del bambino alla sua buona educazione. Spesso il genitore sperimenta la sensazione di paura: paura di sbagliare, paura di perdere l'approvazione del figlio. Inizia così a mettere in atto una serie di strategie poco funzionali e poco educative. Sembrerebbe la via giusta, quella più efficace, ma in questo modo evita, la propria frustrazione ed evita al bambino di sperimentare una sana frustrazione, rendendolo incapace di comprendere quando è necessario mettere in atto comportamenti autonomi e adeguati alla propria età. Oltre ai casi che seguo professionalmente tutti i giorni, mi capita spesso di osservare genitori nei più svariati ambienti: ristoranti, cinema, parchi giochi, centri commerciali e noto come spesso quello che viene scambiato da fuori come un atteggiamento amorevole, premuroso e di attenzione verso il figlio è un sostituirsi al bambino senza dargli la possibilità di rendersi autonomo. Mi farebbe piacere condividere alcune piccoli quadri che nella loro semplicità spiegano facilmente i fatti, in quanto provengono da ambienti di ordinaria routine.

"L' acquaaa!"

Una sera al ristorante osservo una tavolata d'amici, in cui, come spesso capita, i gruppi erano stati nettamente divisi, da una parte gli adulti dall'altra i bambini. Ottimo direi! Ognuno libero di poter socializzare con i propri coetanei. A capotavola una ragazzina di circa undici anni, vestita da piccola donna, indossa una maglietta con su scritto " Shh! La regina sono io!". Il cameriere poggia sul tavolo diverse bottiglie d'acqua. Una proprio davanti alla ragazzina. Tra il chiacchiericcio si sente una richiesta urlata "Acquaaaaaa!". Da lontano una madre distratta dalla discussione si alza, in automatico, e continuando a parlare con gli amici, compie una serie di azioni: versa l'acqua alla bambina, chiude la bottiglia, con lo sguardo sempre rivolto agli amici e torna a risedersi senza aver sentito nessun "per favore", nessun "grazie". (che naturalmente non sono mai stati pronunciati). Un atto dovuto. Una routine cristallizzata. Un atto premuroso di primo acchito, ma che in realtà nasconde l'incapacità della ragazzina di svolgere uno dei primi atti di autonomia che i bambini conquistano, versare l'acqua in un bicchiere;  soprattutto, la difficoltà della madre di dire alla bambina ormai quasi adolescente "fai da sola!". E' palese che la bambina usa la madre come il prolungamento del suo braccio e dal canto suo la madre sostituendosi alla bambina evita che i toni della richiesta diventino più alti e insistenti e che l'atteggiamento possa sfociare in comportamenti difficili da gestire, creando tensione, stress e ansia a tavola.  

L'importante ruolo del padre nel setting abilitativo

La legge:

Secondo il D.lgs. n. 196/2013 conosciuto come General Data Protection Regulation (GDPR), entrato in vigore il 25 maggio 2018. I genitori entrambi sono tenuti a decidere sulle cure da applicare al figlio minore.  Nel caso in cui il destinatario del trattamento sanitario fosse una persona minorenne, il consenso dovrà essere fornito dagli esercenti la responsabilità genitoriale o la tutela (art. 31 CD).

                 Il ruolo del padre:

Il ruolo del padre in ambito terapeutico è fondamentale. E' compito di ogni professionista sollecitarne presenza e collaborazione attiva. Di fronte alle difficoltà del figlio, infatti,  se spesso  la madre appare sempre disponibile a chiedere aiuto  il padre lo è meno e spesso ne segue le decisioni.

E' compito del professionista sollecitare la presenza del padre, in quanto, una volta coinvolti in terapia, i padri possono mostrare risorse e abilità imprevedibili, che possono essere di aiuto al bambino nella generalizzazione degli apprendimenti, nello sviluppo di competenze emotive, motorie e cognitive. Inoltre di supporto al nucleo familiare nella condivisione di strategie e di condivisioni di emozioni (positive e negative) comuni alla madre di fronte alle difficoltà del figlio.  Ritrovare un padre autentico e accudente piuttosto che una mera funzione ordinativa è per un figlio un'esperienza di crescita fondamentale.

Padre e figlio di fronte alla patologia:

Da un punto di vista educativo/pedagogico - nelle famiglie in cui è presente un figlio o una figlia con disabilità (Caldin, 2007): la necessità di cure e di accudimento del bambino, insieme all'incertezza per la sua salute, rischiano di non far intravedere al padre (ma anche alla madre) nessuna altra funzione educativa se non quella maternoaffettiva, che potremmo definire "curante". In queste famiglie e, soprattutto in quelle dove ritroviamo una disabilità complessa, il padre sembra essere "appiattito" e, forse, "appesantito" in/da un ventennale "travestimento materno" (Pietropolli Charmet, 1991), che non gli permette di giocare altri ruoli se non quello dell'alter ego curante della madre (o del tecnico della riabilitazione), dove le differenze di ciascuno - per genere, per ruolo, per appartenenza, per biografia - diventano perlopiù uguaglianze.

Oggi il padre è un uomo capace di prendersi cura di un neonato, alternandosi con la madre nelle funzioni di accudimento. Emerge il profilo di un padre capace di assolvere, anche con una certa naturalezza, la funzione materna che un tempo era svolta unicamente dalle donne, salvo rarissime eccezioni. Nuovi stili di  paternità - che fino a qualche decennio fa erano del tutto impensabili - hanno delle positività e vanno  sostenuti  perché non si verifichi quella che Recalcati definisce un"evaporazione del ruolo del padre". 

Sostegno alla genitorialità:

E' per questo che i servizi dedicati ai minori sono stati ripensati in un approccio inclusivo, tali da includere e soddisfare i bisogni di tutte le famiglie (incluse quelle con un figlio disabile) al fine di promuovere inclusione sociale in contesti ordinari e non in quelli separati. I padri con un figlio con disabilità sono stati a lungo percepiti come "genitori periferici". Ma la realtà è che spesso il padre si è sentito "trascurato" sia dai ricercatori che dai professionisti nell'area socio-educativa. 

Parola chiave "Partecipare":

Il padre oggi deve richiedere di poter essere parte attiva e fondamentale della vita del figlio. Perché è suo diritto conoscere il percorso di abilitazione del figlio e poterne esserne parte, la dove necessario. 

 Bibliografia:

  • Zajczyk, F., Ruspini, E. (2008). Nuovi padri? Mutamenti della paternità in Italia e in Europa. Milano: Baldini Castoldi Dalai. 
  • Lamb, M.E. (Ed.).(2010). The role of the father. In child development. Hoboken: John Wiley & Sons
  • Cinotti A, Caldin R.  L'educare dei padri. Teorie, ricerche, prospettive e disabilità,Liguori Editore, Napoli , 2016 ,https://hdl.handle.net/2318/1684417 
  • CM Muttini, M Fulcheri, CM Marchisio - 2009 - aracneeditrice.it

                 Il ruolo del padre:

Il ruolo del padre in ambito terapeutico è fondamentale. E' compito di ogni professionista sollecitarne presenza e collaborazione attiva. Di fronte alle difficoltà del figlio, infatti,  se spesso  la madre appare sempre disponibile a chiedere aiuto  il padre lo è meno e spesso ne segue le decisioni.

E' compito del professionista sollecitare la presenza del padre, in quanto, una volta coinvolti in terapia, i padri possono mostrare risorse e abilità imprevedibili, che possono essere di aiuto al bambino nella generalizzazione degli apprendimenti, nello sviluppo di competenze emotive, motorie e cognitive. Inoltre di supporto al nucleo familiare nella condivisione di strategie e di condivisioni di emozioni (positive e negative) comuni alla madre di fronte alle difficoltà del figlio.  Ritrovare un padre autentico e accudente piuttosto che una mera funzione ordinativa è per un figlio un'esperienza di crescita fondamentale.

Padre e figlio di fronte alla patologia:

Da un punto di vista educativo/pedagogico - nelle famiglie in cui è presente un figlio o una figlia con disabilità (Caldin, 2007): la necessità di cure e di accudimento del bambino, insieme all'incertezza per la sua salute, rischiano di non far intravedere al padre (ma anche alla madre) nessuna altra funzione educativa se non quella maternoaffettiva, che potremmo definire "curante". In queste famiglie e, soprattutto in quelle dove ritroviamo una disabilità complessa, il padre sembra essere "appiattito" e, forse, "appesantito" in/da un ventennale "travestimento materno" (Pietropolli Charmet, 1991), che non gli permette di giocare altri ruoli se non quello dell'alter ego curante della madre (o del tecnico della riabilitazione), dove le differenze di ciascuno - per genere, per ruolo, per appartenenza, per biografia - diventano perlopiù uguaglianze.







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